Per il Giorno della memoria degli anni scorsi, Nadia Benni, residente a Santa Croce di Cervasca, pose a suo padre, Luigi Benni, le domande che i ragazzi delle medie di Cervasca avevano formulato per scritto; Nadia filmò tutte le risposte, realizzando un lungo interessante filmato.

Ringraziamo Nadia e il Sig. Luigi per avercelo messo a disposizione; abbiamo così conosciuto una storia lunga e complessa, di cui pubblichiamo una sintesi e un tratto del filmato relativo al campo di concentramento in cui il Sig. Luigi fu internato, dopo la cattura in Jugoslavia. Ringraziamo anche l’Istituto comprensivo che ci ha consentito l’utilizzo.

 

 

Quattro vite in una

Dall’intervista realizzata da Nadia Benni al padre Luigi

 

Vita numero 1 – La vita “normale”

Luigi Benni nasce a Genova Sampierdarena, quartiere operaio, nel 1927 e ha un fratello più piccolo di due anni; il papà è tranviere, ma muore quando lui sta finendo le scuole elementari. Viene messo in un Collegio per orfani, mentre la mamma inizia a fare le pulizie di notte negli Uffici della società tranviaria. A 12 anni, Luigi incomincia a lavorare come garzone in estate e, poi, in un mattonificio, sempre come garzone. Gli unici divertimenti sono andare, qualche volta, a vedere gli spettacoli del circo. Quando ha 13 anni scoppia la guerra… ma questo periodo fa già parte di un’altra vita. Alla fine della guerra, lavorerà all’Ansaldo fino a quando andrà in pensione. Resterà a vivere a Genova con la moglie fino a quando la figlia Nadia non li trasferisce a vivere con lei a Santa Croce di Cervasca.

Vita numero 2 – Il partigiano Luigi

Giovanissimo, diventa volontario della Croce Rossa e i servizi richiedono che si vada a prendere i malati con una barella, spinta a mano, con le rotelle che si adattano alle rotaie del tram per andare più veloce e senza sobbalzi. Dopo lo scoppio della guerra, Genova è bombardata di continuo, vengono ricavati rifugi antiaerei nelle gallerie della ferrovia. Molte notti si dorme nelle gallerie dove Luigi conosce alcuni adulti che iniziano a propagandare l’idea di ribellarsi ai fascisti.

Il 25 luglio del ’43 cade il fascismo e, anche a Genova, si verificano manifestazioni di gioia e assalti alle case dei fascisti più importanti, si buttano giù i fasci littori, si recuperano fucili e munizioni nei depositi, insomma ciò che accade di solito quando cade una dittatura… o almeno si pensa che sia caduta.

Dopo l’8 settembre e la firma dell’armistizio, i tedeschi occupano anche Genova.

La mamma di Luigi, per andare a lavorare, deve usare il tram, sempre pienissimo; una volta lo prende al volo e sale sulla predella, ma un tedesco la butta giù in malo modo per salire lui: per fortuna solo qualche escoriazione. In Luigi, tuttavia, questo episodio scatena rabbia e voglia di combattere i tedeschi. Ha 16 anni, si informa dove può andare, per mettere in pratica il desiderio di passare all’azione: viene a sapere che, a Monastero Bormida, c’è un centro di raccolta di volontari che vogliono combattere i tedeschi. A febbraio del ’44, quindi, prende il treno con addosso il cappotto del padre e si ritrova a Monastero Bormida insieme a ex militari e civili: è il più giovane del gruppo e così inizia la sua vita da partigiano. Questo primo gruppo di partigiani è un po’ disorganizzato e, soprattutto, senza armi. Le armi, perciò, se le procurano assaltando le piccole caserme dei paesi. In quel periodo, potevano muoversi abbastanza liberamente tra un paese e l’altro: Luigi si ricorda di essere stato in Langa, nomina Neive e Mombarcaro. Si mangia quello che i contadini nelle cascine possono offrire.

Intanto nel nord non occupato dagli alleati, si è costituita la Repubblica di Salò. Luigi e altri compagni partigiani prendono la corriera per Canelli, vedono che la gente gli fa dei gesti, ma non ne capiscono il motivo. Sulla piazza del municipio, scendono e trovano i tedeschi che li aspettano (è poi stato appurato che sono stati traditi da un certo colonello Davide), li arrestano e li portano a Venaria Reale, per addestrarli come forze repubblichine. Qui due di loro, che abitano vicino, riescono a scappare. A questo punto sono trasferiti prima a Gradisca, ai confini con la Slovenia, e poi nella risiera di San Sabba per continuare l’addestramento. In questo modo, grazie all’addestramento tedesco, Luigi impara bene l’uso delle armi. Terminato l’addestramento, i tedeschi li dividono in squadre di sei e li mandano nel territorio istriano, in piccole casermette, a fare il servizio di controllo del territorio.

 

Vita numero 3 – Partigiano in Jugoslavia

Uno di loro, a un certo punto, prende contatto con i partigiani jugoslavi che li aiutano a scappare di notte e li accompagnano in montagna, dove si aggregano alla 43.a divisione, 2.a brigata. I tedeschi e i fascisti fanno rastrellamenti, bruciano le case e, in pratica, i paesi non esistono più; la popolazione vive nei boschi dentro alcune baracche in legno di fortuna, dette “stanche”.

I partigiani jugoslavi sono ben organizzati, sono quasi un esercito sotto il comando inglese, sono supportati dai lanci aerei per cui hanno mortai, mitragliatrici, cavalli, l’infermeria; fanno saltare i binari delle ferrovie all’arrivo dei treni, organizzano diversi attacchi coordinati sia verso Lubiana che tra Pola e Fiume. Per cibarsi chiedono alle famiglie del posto che, secondo la disponibilità, preparano da mangiare per tre, quattro, cinque partigiani e poi si suddividono alle diverse tavole.

Luigi si ricorda di una signora non più giovane che, quando lo sente parlare italiano, gli si avventa contro per picchiarlo: i compagni gli dicono che i fascisti le avevano ucciso il figlio e bruciato la casa. Bisogna ricordare che i fascisti, quando avevano occupato l’Istria, avevano espropriato diversi beni della gente del posto e si erano comportati come occupanti di un territorio straniero, agendo col pugno di ferro. Secondo Luigi, sono questi precedenti ad aver poi innescato le foibe, cioè la drammatica vendetta dei partigiani jugoslavi contro quanto i fascisti avevano fatto subire alla popolazione.

Nell’estate del ’44, Luigi e i partigiani sono accampati in montagna, ma con l’arrivo dell’autunno e del freddo sono costretti a scendere in pianura, dopo aver nascosto le armi pesanti in montagna. In pianura, si spostano di notte con le armi leggere e i cavalli al seguito.

Il 4 novembre del ’44 all’alba vengono tuttavia sorpresi dai tedeschi, inizia una sparatoria ma, alla fine, vengono uccisi cinquanta partigiani e catturati tredici del loro gruppo, tra cui lo stesso Luigi.

 

Vita numero 4 – Prigioniero a Mauthausen

Luigi viene portato di nuovo nella risiera di San Sabba, interrogato e poi spostato nelle carceri del Coroneo, a Trieste. Il 28 novembre del ’44, Luigi viene caricato su un treno insieme ad altri prigionieri: civili e operai, ma alle loro famiglie viene consentito di fornire ai propri cari qualcosa per il “viaggio”. Il treno subisce, senza conseguenze, un attacco aereo nei pressi di una stazione; buona parte dei deportati non ha nulla da mangiare e da bere, il treno fa una tappa cosicché i prigionieri possono bere e mangiare qualcosa. Il treno arriva a Linz. I deportati percorrono a piedi la strada piena di neve ghiacciata che li separa dal campo di Mauthausen. Luigi non ha scarpe, ma solo i piedi fasciati con strisce di vecchie coperte militari. Uno nella fila davanti a lui ha una valigia e un paio di scarpe al collo, Luigi gliele chiede, ma gli vengono negate. Arrivati sul piazzale di Mauthausen, vengono fatti attendere. I prigionieri da più lungo tempo si avvicinano, avvisandoli di tirare fuori comunque tutto quello che avevano, tanto sarebbe stato loro sequestrato. I deportati cominciano a capire la situazione e così vengono fuori salami e pane che vengono condivisi con gli altri.

Compagna di Luigi in questi anni giovanili – sia prima con i partigiani che poi, molto di più, come prigioniero a Mauthausen – è la fame. Questo pasto a base di pane e salame Luigi se lo ricorda ancora, anche perché, dopo, la loro “dieta” sarebbe stata una brodaglia a mezzogiorno e un quarto o, al massimo, metà pane nero alla sera.

I tedeschi li fanno entrare in un camerone dove tutti sono costretti a spogliarsi nudi, sono sottoposti a un trattamento di disinfezione e, poi, al taglio di peli e capelli, quindi una doccia, prima fredda, poi calda e poi di nuovo fredda. Usciti fuori, ricevono un paio di pantaloni, una giacca (il tutto “sembrava un pigiama”) e un paio di zoccoli: adesso sono tutti uguali, non c’è più diversità tra chi non aveva nulla e chi aveva qualcosa di più.

Vengono mandati a dormire con una coperta sulla terra battuta, in una baracca di smistamento. Per alcune mattine devono uscire fuori nudi, rispondere all’appello e aspettare di rientrare in baracca. In questo periodo “di quarantena” Luigi ha dovuto fare la famosa scalinata di Mauthausen solo due volte portando pietre (ma non grandi) per lastricare un sentiero, in quanto aveva piovuto e c’era fango e i tedeschi non volevano sporcarsi gli stivali.

A tutti i prigionieri vengono richieste le generalità e l’occupazione precedente, dopodiché vengono smistati. Luigi è destinato a Gusen 1, un campo di lavoro vicino. L’età, il fatto che sia riuscito ad adattarsi e, soprattutto, la fortuna gli avrebbero salvato la vita.

A Gusen, il lavoro era organizzato in un grande hangar di lamiera ondulata, dove i deportati dovevano limare le sbavature delle ossature metalliche delle carlinghe degli aerei. Il lavoro non era pesante, alla sera potevano ritrovarsi con gli altri prigionieri a chiacchierare. Come materiale di scambio per patate, margarina o sigarette, Luigi costruiva delle scatoline con l’alluminio di scarto.

I capoblocco del campo erano generalmente criminali, i Kapò; quello della baracca di Luigi era ancora un “essere umano” e gli piaceva sentire cantare da un loro compagno “mamma…”. Questo poveretto, purtroppo, sarebbe morto qualche giorno prima della liberazione del campo, nel letto a castello della baracca continuando a invocare la mamma.

Gli ebrei nel campo di lavoro di Mauthausen erano solo di passaggio, non servivano come lavoratori, venivano smistati subito in altri campi. Da Gusen, i deportati vedevano il fumo che usciva dai forni crematori, nel campo centrale a 4 km. Chi non ce la faceva più a lavorare, veniva infatti “gasato”.

A un certo punto, comincia a diffondersi la notizia che gli americani erano arrivati in Italia, che la liberazione era vicina. I prigionieri vedono passare aerei e sentono i bombardamenti lontani. Ad un certo momento gli SS scappano, sostituiti da militari della Wehrmacht, ma dopo poco anche questi scappano.

Luigi cerca di sopravvivere, ma è allo stremo delle forze; per fortuna, il suo stomaco si rifiuta di mangiare un impasto con legumi macinati e questo lo salva dalla diarrea che invece colpisce molti altri che ne sarebbero morti.

Arrivano gli americani a liberare il campo e a dirigere il campo vengono messi i detenuti politici polacchi e russi, che si vendicano a bastonate di qualche kapò che non è riuscito a fuggire. Gli internati macellano i cavalli per mangiare.

Luigi è nel letto a castello, non ce la fa più, pesa 25 chili, viene portato in infermeria dove gli fanno delle flebo. Quando si sveglia viene nutrito a brodo di carne cosicché, in una decina di giorni, riesce a riprendersi.

Passa qualche giorno e poi, finalmente, viene organizzato il rimpatrio. È giugno, comincia a fare caldo. Con i camion gli italiani sono portati a Innsbruck, dove una commissione del governo italiano provvisorio li accoglie con un bel discorso e tante promesse. Sempre con i camion, Luigi e i suoi compatrioti arrivano al Brennero dove vengono visitati: a Luigi viene consigliato di fermarsi all’ospedale perché ha una malattia polmonare, ma lui vuole arrivare a casa il più presto possibile. Così prosegue con mezzi di fortuna fino a Pavia e da lì può salire su un treno che lo porta a Genova. Non va fino alla stazione Principe, ma si ferma a Sampierdarena, prende il tram per casa sua vestito con una divisa da deserto datagli dagli americani. Manda un amico ad avvertire sua madre. La mamma gli chiede di fargli vedere le mani in quanto sapeva che ai prigionieri venivano strappate spesso le unghie. Viene anche a sapere che pure il fratello minore era andato a fare il partigiano dopo di lui, ma essendo molto giovane era stato utilizzato solo come staffetta.

Al ritorno Luigi ha sempre fame: la madre fa sacrifici per comprare qualcosa da mangiare alla borsa nera. Per la malattia polmonare contratta, Luigi è ricoverato in ospedale, dove sarebbe rimasto fino al ’48, data in cui ha potuto cominciare a lavorare all’Ansaldo, come anticipato in precedenza.

                                                                                               Sintesi realizzata da Silvana Voerzio